Due casi molto diversi di auto-immolazione: i combattenti ebrei a Masada e le donne indiane nel rituale del Sati.
di Massimo Introvigne*
*Relazione presentata alla Occult Convention IV, Parma, 6 settembre 2025.
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L’assedio di Masada del 73 d.C. è un esempio spettacolare di suicidio collettivo nella storia ebraica, aperto a varie interpretazioni, tra cui il martirio, la resistenza e la tragedia. Per comprenderne l’importanza religiosa e culturale, è necessario innanzitutto esaminare il contesto storico.
Masada, una fortezza costruita da Erode il Grande su un altopiano remoto nel deserto della Giudea che domina il Mar Morto, era stata progettata come rifugio in caso di rivolta. La sua posizione strategica la rendeva quasi inespugnabile. Dopo la distruzione del Secondo Tempio nel 70 d.C., i ribelli ebrei chiamati Sicari, una fazione estremista che si opponeva al dominio romano, si ritirarono a Masada con le loro famiglie. Guidati da Eleazar ben Ya’ir, continuarono a resistere a Roma da questa roccaforte isolata. Nel 72 d.C., il governatore romano Lucio Flavio Silva guidò la Decima Legione e le truppe ausiliarie all’assedio di Masada. I Romani costruirono un’enorme rampa per sfondare la fortezza, un’impresa ingegneristica che richiese mesi di lavoro.
Secondo lo storico ebreo Flavio Giuseppe, quando i Romani entrarono nel 73 d.C., trovarono quasi tutti i 960 abitanti morti. Giuseppe afferma che i Sicari preferirono la morte alla schiavitù: uccisero le loro famiglie, poi si uccisero a vicenda, lasciando un solo uomo per compiere l’atto finale del suicidio.
Questo racconto è stato oggetto di dibattito; alcuni ne mettono in dubbio l’accuratezza, sottolineando i legami di Giuseppe con Roma e la potenziale drammatizzazione. Le prove archeologiche confermano l’assedio, ma non supportano necessariamente la versione del suicidio di massa.

Studiosi come Nachman Ben-Yehuda hanno messo in dubbio la rappresentazione eroica di questo evento. Nel suo libro, “The Masada Myth”, suggerisce che il resoconto tradizionale sia stato influenzato da motivi ideologici, più recentemente dai tentativi sionisti di costruire un’eredità di resistenza ebraica. Egli sottolinea che i Sicari non erano molto ammirati e che le loro azioni, come il massacro di Ein Gedi, mettono in discussione la visione semplificata del nobile martirio.
E tuttavia la storia di Masada rimane un potente simbolo dell’identità ebraica e israeliana. Oggi Masada è considerata in Israele un luogo di eroica resistenza e la frase “Masada non cadrà mai più” era un tempo il motto delle forze di difesa israeliane.
Dal punto di vista religioso, l’atto suicida a Masada è in contrasto con la legge ebraica, che proibisce il suicidio. Tuttavia, alcuni rabbini e studiosi sostengono che le azioni dei Sicari erano giustificate dal “Kiddush Hashem”, ovvero la santificazione del nome di Dio attraverso il martirio, e motivate dal timore di conversioni forzate, torture o profanazioni.
Masada riflette una complessa intersezione tra religione, nazionalismo e memoria, sfidando le semplici nozioni di suicidio come peccato o martirio come virtù e stimolando una riflessione su come l’identità collettiva modella le interpretazioni della morte.

L’India offre un esempio molto diverso di auto-immolazione in un contesto religioso. Il sati, anglicizzato in “suttee,” era una pratica storica in cui le vedove indù si immolavano sui roghi funebri dei mariti. Originariamente significava “donna virtuosa”, ma in seguito il termine ha finito per indicare sia la donna sia l’atto di auto-immolazione.
Questa pratica è una delle forme di suicidio rituale più discusse nella storia delle religioni, intrecciata com’è con il mito, il controllo sociale e controversie sulla libertà personale. L’origine mitologica di questa pratica risale alla storia della dea Sati, che si immolò per protestare contro l’insulto rivolto da suo padre a Shiva. Tuttavia, la pratica formale dell’immolazione delle vedove emerse più tardi, soprattutto tra i clan dell’élite Rajput durante l’India medievale, ed era spesso legata a nozioni di onore, purezza e lealtà. Si credeva che le vedove che commettevano il sati diventassero divinità, e i luoghi della loro cremazione erano contrassegnati da pietre commemorative o templi.
La pratica non era universale, ma più comune tra le donne delle caste superiori del Bengala e del Rajasthan. Alcuni studiosi suggeriscono che i diritti di proprietà abbiano influenzato il sati, soprattutto in Bengala, dove le vedove potevano ereditare i beni, forse ricorrendo al rito per impedire le loro rivendicazioni patrimoniali. Altri sottolineano il trattamento duro riservato alle vedove – rasatura della testa, abiti bianchi, un solo pasto al giorno – come una forma di “sati freddo”, che forse spingeva alcune a scegliere la morte piuttosto che il rifiuto sociale.
Le autorità coloniali britanniche, in particolare durante il mandato del governatore generale William Bentinck, abolirono il sati nel 1829 con la Bengal Sati Regulation. Questa legge definiva la pratica “illegale e malvagia” e considerava criminali coloro che la favorivano. Anche i missionari cristiani e i riformatori sociali indiani descrivevano il sati come una pratica selvaggia e incompatibile con i valori contemporanei.

Studiosi moderni sottolineano che l’abolizione del sati ha favorito gli interessi imperiali, consentendo agli inglesi di rivendicare una superiorità morale e giustificare il loro intervento nelle tradizioni indiane. La rappresentazione legale del sati come omicidio o suicidio ha trascurato i suoi aspetti rituali e simbolici, riducendolo a un atto criminale.
Il caso più discusso di recente è quello di Roop Kanwar, una vedova diciottenne che ha commesso sati in Rajasthan nel 1987, scatenando indignazione e portando all’approvazione del Sati (Prevention) Act del 1987, che ha reso illegale l’atto e la sua glorificazione.
Le scritture indù inviano messaggi contrastanti sul sati: il Rig Veda sembra sostenere l’immolazione delle vedove, ma testi successivi come il Manusmriti si concentrano sulla castità e la rinuncia piuttosto che sulla morte. Riformatori come Raja Ram Mohan Roy condannarono il sati come barbaro e non parte dell’induismo, operando per la sua abolizione durante il XIX secolo.

Nel complesso, il sati illustra come il suicidio rituale possa essere radicato in norme religiose legate al genere. Mostra anche come le interpretazioni del dharma e della purezza possano talvolta prevalere sull’istinto di sopravvivenza.
Il sati deve essere inteso sia come rito religioso sia come imposizione sociale. Mentre alcune donne potrebbero averlo abbracciato come un percorso verso la purezza spirituale, altre sono state costrette o non avevano alternative. Che i due atteggiamenti coesistessero in India è un tema centrale del romanzo della scrittrice britannica Mary Margaret Kaye “Padiglioni lontani”, che nel 1978 divenne un bestseller mondiale. La pratica riflette strutture patriarcali profondamente radicate in cui l’identità della donna era subordinata a quella del marito.
Gli studi moderni sottolineano la necessità di distinguere tra atti religiosi volontari e violenza imposta dalla società. L’eredità del sati continua a suscitare dibattiti sull’autonomia, la tradizione e i limiti della libertà religiosa.

Massimo Introvigne (born June 14, 1955 in Rome) is an Italian sociologist of religions. He is the founder and managing director of the Center for Studies on New Religions (CESNUR), an international network of scholars who study new religious movements. Introvigne is the author of some 70 books and more than 100 articles in the field of sociology of religion. He was the main author of the Enciclopedia delle religioni in Italia (Encyclopedia of Religions in Italy). He is a member of the editorial board for the Interdisciplinary Journal of Research on Religion and of the executive board of University of California Press’ Nova Religio. From January 5 to December 31, 2011, he has served as the “Representative on combating racism, xenophobia and discrimination, with a special focus on discrimination against Christians and members of other religions” of the Organization for Security and Co-operation in Europe (OSCE). From 2012 to 2015 he served as chairperson of the Observatory of Religious Liberty, instituted by the Italian Ministry of Foreign Affairs in order to monitor problems of religious liberty on a worldwide scale.


